Biodiversità a Cop15: il controverso piano dell’Onu, che mette a rischio le popolazioni indigene

Biodiversità a Cop15: il controverso piano dell’Onu, che mette a rischio le popolazioni indigene

Biodiversità a Cop15: il controverso piano dell’Onu, che mette a rischio le popolazioni indigene


Se pensiamo che animali e piante debbano essere protetti, lo stesso vale per gli esseri umani? Ci sono popoli più sacrificabili di altri? E se così fosse stabilito in nome di un futuro comune sulla biodiversità, è possibile che si tratti proprio di quelli che rispettano meglio gli altri esseri viventi sulla Terra? Secondo ong come Amnesty International e Survival International, la Cop15, la conferenza delle Nazioni unite sulla biodiversità che si sta tenendo in Canada, ha lanciato un progetto che mette a rischio la sopravvivenza di molte popolazioni umane: le più antiche, le più indifese, le più armoniche come stile di vita con la natura che vogliamo salvare. 

È la proposta 30×30, uno dei pilastri fondanti degli obiettivi del summit: si tratta di trasformare il 30% del pianeta in ‘aree protette’ entro il 2030. In una dichiarazione congiunta, diverse organizzazioni denunciano che “senza una seria revisione, il cosiddetto target del 30×30 distruggerà la vita di molti popoli indigeni” che vivono proprio in queste aree protette. 

I punti:

  1. Cos’è la Cop15
  2. A rischio la vita di 300 milioni di persone
  3. Quali popolazioni indigene sono più a rischio
  4. Tutelare la biodiversità umana
  5. Azioni efficaci
  6. Altri mondi

Cos’è la Cop15

È il più importante appuntamento mondiale a tutela della biodiversità, che coinvolge 196 nazioni ed è guidato dalle Nazioni Unite. In Canada, dove si tiene la Cop15 che si conclude il 19 dicembre, si cerca di superare un’impasse ventennale, dato che gli obiettivi siglati in due importanti edizioni precedenti, quelle del 2002 e del 2010, sono stati quasi del tutto mancati. S

oprattutto, secondo gli addetti, a causa della mancanza di fondi: secondo un report delle Nazioni Unite servirebbero circa 350 miliardi di dollari l’anno per affrontare con successo la sfida del collasso della biodiversità. Ma uno dei punti più dibattuti riguarda proprio il budget che, secondo molti Paesi in via di sviluppo dove esistono le aree di biodiversità da proteggere, dovrebbe salire a 700 miliardi di dollari l’anno. La questione invece sotto traccia, anche a causa della scarsissima rappresentatività delle popolazioni indigene a Cop15, è quella del progetto 30×30.

A rischio la vita di 300 milioni di persone

Complessivamente, il progetto 30×30 interessa 300 milioni di persone secondo le stime Survival International, il movimento mondiale per i popoli indigeni. Si tratta di poco meno del 70% dei 460 milioni di indigeni che vivono sul Pianeta: di questi, circa 150 milioni di individui appartengono in senso stretto ai “popoli tribali”, ovvero 5.000 comunità in 70 Paesi sparsi nei cinque continenti. Si va da quelli meno numerosi come gli Akuntsu a quelli più grandi e noti come i Quechua (10 milioni di individui), i Nahuatl (5 milioni), gli Aymara (2 milioni). Insieme sfiorano il 6% di tutte le persone sulla Terra: quasi tre su quattro tra queste potrebbero essere interessati dalle misure del progetto 30×30 di Cop15. Che a prima vista sembra semplicemente una massiccia iniziativa di tutela della biodiversità.

In molte parti del mondo le aree protette sono militarizzate e violente – spiega Fiore Longo, responsabile della campagna per decolonizzare la conservazione di Survival International -. Vengono create senza il consenso degli abitanti indigeni e locali che hanno vissuto in quelle terre per generazioni. Si tratta di un massiccio furto di terra eseguito nel nome della conservazione. Spesso, gli abitanti di questi territori vengono sfrattati illegalmente. I guardaparco poi limitano o negano l’accesso dei locali alle loro stesse terre privandoli di mezzi di sussistenza e identità: non possono accedere nemmeno ai loro cimiteri e siti sacri. Gli stessi guardaparco commettono atrocità contro i locali che cercano di entrare nelle loro terre per sfamare le proprie famiglie o che non vogliono abbandonare le loro case nella foresta. Sono frequenti abusi, stupri, torture e persino omicidi. Una volta svuotate dei loro abitanti originari, spesso con la violenza, le terre passano sotto il controllo di élite locali o di ong della conservazione che a quel punto possono stringere accordi con chi vuole sfruttarne le risorse. Molto spesso si aprono le porte al turismo di massa, caccia da trofeo e persino alle industrie estrattive. Il piano del 30% raddoppierà la quantità di terra destinata alle aree protette ed è molto probabile che raddoppierà anche il numero di questi crimini”.

Quali popolazioni indigene sono più a rischio

Si tratta soprattutto di quelle che vivono nelle aree con maggiore biodiversità al mondo, come la Foresta amazzonica e il bacino del Congo, dove abitano moltissimi popoli indigeni e altre comunità locali. “Le vite dei Baka nel bacino del Congo, dei Boscimani in Botswana, dei Masai in Tanzania e delle tribù Adivasi in India vengono distrutte da chi afferma di voler proteggere la natura. Pertanto, è inevitabile che nell’ambito del 30×30 – il cui scopo primario è la protezione della natura – una quota significativa delle nuove aree protette sarà realizzata nelle terre indigene, soprattutto nel Sud del mondo”, continua Longo.



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di Gianluca Schinaia www.wired.it 2022-12-17 05:50:00 ,

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